Praia a Mare, 6.700 anime circa in provincia di Cosenza, ha vinto più volte il premio regionale di Comune innovatore. Lo bandisce Asmenet, l’azienda consortile pubblica che in Calabria si occupa di aiutare cittadini e paesi a innovare i servizi della pubblica amministrazione. Tanto che quando la società deve sperimentare un progetto, spesso usa Praia a Mare come cavia. Secondo i ricercatori dell’Osservatorio e-government del Politecnico di Milano, il Comune, “negli ultimi dieci anni, ha dimostrato una forte propensione verso i progetti di innovazione digitale”.
La cittadina di mare, che vive per lo più del turismo, è tuttavia un caso isolato in Italia. Il 66% dei Comuni sotto i 15mila abitanti, analizzati dall’Osservatorio del Politecnico, ha riconosciuto che nel 2016 gli investimenti in tecnologia sono rimasti immutati. E se si prendono in considerazioni tutti i 543 Comuni analizzati dagli studiosi dell’ateneo, la percentuale scende di poco: 61%. È la dimostrazione che la campagna per rendere la pubblica amministrazione italiana più semplice, attraverso il digitale, arranca in un terreno paludoso.
“Molti dei problemi rilevati corrispondono a quelli che abbiamo osservato sul campo”, riconoscono i componenti del team per la trasformazione digitale di Palazzo Chigi, guidato dall’ex numero due di Amazon, Diego Piacentini.
Lo scenario che emerge dal rapporto del Politecnico disegna un’Italia spaccata in due. Da un lato i grandi Comuni (sopra i 50mila abitanti), che nel 56% dei casi hanno aumentato gli investimenti in digitale. Dall’altro le città medie e i piccoli paesi, ossia il tessuto caratteristico dell’urbanizzazione italiana, fanno fatica a fare un balzo in avanti, complici le risorse risicate. Tanto che il 62% dichiara che la priorità tra gli aiuti che potrebbero arrivare dall’alto riguarda la “ricerca di finanziamenti”. Il risultato è uno stallo. Il 56% dei Comuni riconosce di non avere alcun progetto di innovazione in corso e il 48% smette di utilizzare un’innovazione digitale perché sono finiti i soldi. Quest’ultima causa è aumentata del 37% di casi negli ultimi due anni.
Nel complesso il 30% degli italiani non può interagire in rete con gli uffici pubblici, quindi non può richiedere certificati, inoltrare documenti, scaricare moduli o comunicare via mail e posta elettronica certificata. Un altro 25% dei cittadini accede solo a un terzo dell’offerta di servizi presente nei Comuni più informatizzati. A conti fatti, quindi, più della metà della popolazione italiana deve affidarsi alla carta o alla coda allo sportello nella maggior parte o nella totalità dei casi.
Per gli analisti del Politecnico, uno dei problemi più gravi consiste nella costante duplicazione di soluzioni digitali già sviluppate da altri. Dato che condividere un progetto costa, la pubblica amministrazione è costretta a spendere in copie di copie. “Le cause dell’assenza di una ‘cultura del riuso’ sono molteplici – si legge nella ricerca -: specificità delle soluzioni, difficoltà a collaborare, eccessivi oneri per l’Ente cedente, eccessiva complessità nell’introdurre e adattare la soluzione per l’Ente riusante”.
Il carrozzone non è fermo del tutto. PagoPa, il sistema di pagamenti che digitalizza sia le procedure degli utenti sia la rendicontazione degli uffici, si sta diffondendo. “Alla fine del 2016 le transazioni gestite sulla piattaforma sono state circa 800mila, soprattutto perché le Pubbliche Amministrazioni avevano esposto su PagoPA servizi poco qualificanti e che producevano un numero di pagamenti bassi come volume e come importo”, è l’analisi del team di Piacentini. La squadra ha l’obiettivo di arrivare entro fine anno a 10 milioni di transazioni e a 30 miliardi entro il 2018, ma secondo loro il traguardo è raggiungibile perché il sistema si sta diffondendo. Il Comune di Palermo lo ha adottato per la Tari e a Roma si possono pagare multe e reversali. In Friuli Venezia Giulia la piattaforma ha creato un centro unico di incasso per tutti gli enti.
Per il Politecnico sono migliorati l’uso dello sportello unico delle attività produttive (suap), anche se la modulistica da scaricare è ancora troppa e troppo complessa la gestione informatica delle scuole (relativa ai processi interni e non agli insegnamenti offerti agli studenti). L‘istituto Volta di Perugia ha installato un wifi campus per gli allievi e creato una piattaforma di e-learning. Il team digitale invece sta lavorando sull’Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), a cui finora sono migrati solo nove Comuni. Cesena è l’unico capoluogo di provincia.
L’analisi giunge alla conclusione che i grandi progetti di digitalizzazione pubblica partiti in Italia tra il 2016 e il 2017, come Spid, Anpr, PagoPa e il nuovo codice dell’amministrazione digitale “rischiano però di faticare non poco nel raggiungere i propri obiettivi se gli Enti Locali saranno lasciati, come ora accade, pressoché autonomi nella gestione del cambiamento derivante dall’introduzione di queste innovazioni”. Il nuovo codice di amministrazione digitale, ad esempio, prevede la figura del responsabile per la transizione digitale per ciascun ufficio pubblico. Tuttavia, rilevano dal Politecnico, il cambiamento “rischia di non essere, però, ancora sufficiente se queste nuove figure non saranno adeguatamente coadiuvate sia internamente, affiancando loro uno staff adeguato, sia esternamente, ad esempio attraverso la strutturazione di una community che li supporti nel condividere competenze ed esperienze. In generale, un sistema meno “campanilistico” e sempre più volto alla collaborazione”.
La cittadina di mare, che vive per lo più del turismo, è tuttavia un caso isolato in Italia. Il 66% dei Comuni sotto i 15mila abitanti, analizzati dall’Osservatorio del Politecnico, ha riconosciuto che nel 2016 gli investimenti in tecnologia sono rimasti immutati. E se si prendono in considerazioni tutti i 543 Comuni analizzati dagli studiosi dell’ateneo, la percentuale scende di poco: 61%. È la dimostrazione che la campagna per rendere la pubblica amministrazione italiana più semplice, attraverso il digitale, arranca in un terreno paludoso.
“Molti dei problemi rilevati corrispondono a quelli che abbiamo osservato sul campo”, riconoscono i componenti del team per la trasformazione digitale di Palazzo Chigi, guidato dall’ex numero due di Amazon, Diego Piacentini.
Lo scenario che emerge dal rapporto del Politecnico disegna un’Italia spaccata in due. Da un lato i grandi Comuni (sopra i 50mila abitanti), che nel 56% dei casi hanno aumentato gli investimenti in digitale. Dall’altro le città medie e i piccoli paesi, ossia il tessuto caratteristico dell’urbanizzazione italiana, fanno fatica a fare un balzo in avanti, complici le risorse risicate. Tanto che il 62% dichiara che la priorità tra gli aiuti che potrebbero arrivare dall’alto riguarda la “ricerca di finanziamenti”. Il risultato è uno stallo. Il 56% dei Comuni riconosce di non avere alcun progetto di innovazione in corso e il 48% smette di utilizzare un’innovazione digitale perché sono finiti i soldi. Quest’ultima causa è aumentata del 37% di casi negli ultimi due anni.
Nel complesso il 30% degli italiani non può interagire in rete con gli uffici pubblici, quindi non può richiedere certificati, inoltrare documenti, scaricare moduli o comunicare via mail e posta elettronica certificata. Un altro 25% dei cittadini accede solo a un terzo dell’offerta di servizi presente nei Comuni più informatizzati. A conti fatti, quindi, più della metà della popolazione italiana deve affidarsi alla carta o alla coda allo sportello nella maggior parte o nella totalità dei casi.
Per gli analisti del Politecnico, uno dei problemi più gravi consiste nella costante duplicazione di soluzioni digitali già sviluppate da altri. Dato che condividere un progetto costa, la pubblica amministrazione è costretta a spendere in copie di copie. “Le cause dell’assenza di una ‘cultura del riuso’ sono molteplici – si legge nella ricerca -: specificità delle soluzioni, difficoltà a collaborare, eccessivi oneri per l’Ente cedente, eccessiva complessità nell’introdurre e adattare la soluzione per l’Ente riusante”.
Il carrozzone non è fermo del tutto. PagoPa, il sistema di pagamenti che digitalizza sia le procedure degli utenti sia la rendicontazione degli uffici, si sta diffondendo. “Alla fine del 2016 le transazioni gestite sulla piattaforma sono state circa 800mila, soprattutto perché le Pubbliche Amministrazioni avevano esposto su PagoPA servizi poco qualificanti e che producevano un numero di pagamenti bassi come volume e come importo”, è l’analisi del team di Piacentini. La squadra ha l’obiettivo di arrivare entro fine anno a 10 milioni di transazioni e a 30 miliardi entro il 2018, ma secondo loro il traguardo è raggiungibile perché il sistema si sta diffondendo. Il Comune di Palermo lo ha adottato per la Tari e a Roma si possono pagare multe e reversali. In Friuli Venezia Giulia la piattaforma ha creato un centro unico di incasso per tutti gli enti.
Per il Politecnico sono migliorati l’uso dello sportello unico delle attività produttive (suap), anche se la modulistica da scaricare è ancora troppa e troppo complessa la gestione informatica delle scuole (relativa ai processi interni e non agli insegnamenti offerti agli studenti). L‘istituto Volta di Perugia ha installato un wifi campus per gli allievi e creato una piattaforma di e-learning. Il team digitale invece sta lavorando sull’Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), a cui finora sono migrati solo nove Comuni. Cesena è l’unico capoluogo di provincia.
L’analisi giunge alla conclusione che i grandi progetti di digitalizzazione pubblica partiti in Italia tra il 2016 e il 2017, come Spid, Anpr, PagoPa e il nuovo codice dell’amministrazione digitale “rischiano però di faticare non poco nel raggiungere i propri obiettivi se gli Enti Locali saranno lasciati, come ora accade, pressoché autonomi nella gestione del cambiamento derivante dall’introduzione di queste innovazioni”. Il nuovo codice di amministrazione digitale, ad esempio, prevede la figura del responsabile per la transizione digitale per ciascun ufficio pubblico. Tuttavia, rilevano dal Politecnico, il cambiamento “rischia di non essere, però, ancora sufficiente se queste nuove figure non saranno adeguatamente coadiuvate sia internamente, affiancando loro uno staff adeguato, sia esternamente, ad esempio attraverso la strutturazione di una community che li supporti nel condividere competenze ed esperienze. In generale, un sistema meno “campanilistico” e sempre più volto alla collaborazione”.