Imprese e lavoratori: dietro il grande ‘odio sociale’ vecchie rendite di posizione

"SUD ED ECONOMIA", UNA RUBRICA DI LEONARDO LASALA

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Il più grande manager italiano di tutti i tempi è senza dubbio Olivetti. La sua attenzione per la produttività e per il sociale hanno tracciato una strada che nessun grande imprenditore nazionale ha saputo solcare.  Proprio in questi giorni si è voluta contrapporre la figura di Sergio Marchionne ad Olivetti, additando il manager FIAT quale responsabile del licenziamento di centinaia di dipendenti del gruppo torinese. E proprio da questa contrapposizione tra due figure differenti, appartenenti ad epoche assolutamente disomogenee e non troppo lontane nei fasti conquistati fuori dal confine italiano, può nascere una seria discussione su una sorta di “odio sociale” che appare caratterizzare l’eterna contrapposizione tra imprenditoria e classe operaia.

 

Che cosa significa oggi fare impresa? Quale è il ruolo dell’imprenditore e quale il rapporto con il lavoro dipendente? Tra le prime 10 aziende italiane per redditività troviamo le ex public company.  Energia, telecomunicazioni, servizi essenziali sono oggi le uniche realtà in grado di non risentire delle turbolenze dei mercati internazionali. Al tempo stesso queste stesse realtà sono sempre di più vere e proprie società finanziarie, quotate in borsa e con destino legato ad operazioni contabili prima ancora che a produttività.

Dagli anni 80 la nostra economia è regredita sempre più sino ad attestarsi in una realtà in cui la small business è la realtà dominante.  Piccole imprese, incapaci di crescere nelle dimensioni, legate per lo più ad organizzazione di tipo familiare, maltrattate da un fisco iniquo e da un sistema bancario incapace di credere realmente nell’innovazione.Questa dimensione ha impedito all’economia italiana di essere spazzata via dalla grande congiuntura che dal 2008 sembra caratterizzare ogni ambito economico e finanziario divenendo tuttavia allo stesso tempo il più grave handicap del nostro mercato. Le imprese non crescono, non marginalizzano, non riescono a produrre ritorno sociale sul territorio.  Qualche realtà figlia delle nuove tecnologie compete sui mercati internazionali ma non riesce a spostare l’asse del PIL nazionale di una sola cifra. In questo desolante panorama va inserita l’assoluta assenza di una politica industriale, turistica, commerciale ed artigiana nazionale e dunque la possibilità per le imprese di essere “sostenute” dalla macchina statale.  Ciò che oggi il sistema chiama “incentivi” non sono altro che prestiti bancari che nella migliore delle ipotesi sono a 5 anni remuneratrici esclusivamente per tutto ciò che non è sistema impresa.

In questo desolante ma concreto panorama in cui il piccolo imprenditore a differenza del lavoratore è soggetto a rischio d’impresa, non ha ammortizzatori sociali e non ha rappresentanza concreta, il popolo del web , quello dei talk show ed in generale chi di impresa comprende poco, non ha saputo tacere negli ultimi giorni di vita di Marchionne per additare un manager apprezzato in tutto il mondo quale “mangia posti” e fautore dei tagli FIAT.  Secondo alcuni dati diffusi negli ultimi giorni, sembra che il gruppo torinese prima dell’avvento del manager italo-svizzero fosse destinato alla chiusura, con una perdita giornaliera di qualche milione di euro. La lucidità di Marchionne nel concepire un gruppo di dimensioni mondiali e la capacità di attaccare un potere sindacale che è sempre di più (dati alla mano) il primo nemico dei lavoratori hanno evitato che l’intero gruppo chiudesse ogni stabilimento in Italia.

Nessuno ignora il destino delle famiglie che sono state colpite dai tagli della FIAT ma pochi hanno la capacità di sostenere che se escludiamo gli ammortizzatori sociali lo Stato in primis ha abbandonato queste famiglie, non riuscendo a proporre alcuna alternativa di riconversione per questi lavoratori.  Quale sarebbe la colpa di Marchionne? Non aver svolto il ruolo che lo Stato dovrebbe assumere proprio nel concetto di “comunità” di Olivetti?  Non era forse il grande manager di Ivrea a sostenere come “una fabbrica che funziona in un territorio che non funziona non ha futuro “? La FIAT è stata sostenuta da ogni governo.  L’immunità alla famiglia Agnelli è arrivata attraverso la nomina a Senatore a vita di uno dei suoi membri più rappresentativi. Ma se è vero che la FIAT ha ottenuto contributi e finanziamenti è altrettanto vero che per incapacità dello Stato la FIAT ha sostituito lo Stato stesso in alcuni territori.  Era molto più facile finanziare stabilimenti “in perdita” che immaginare serie politiche di rilancio industriale della nostra economia.

L’odio sociale che oggi una parte degli italiani ancora schiavi mentali di concetti attraverso cui partiti politici hanno fatturato cifre forse superiori a qualsiasi gruppo industriale, rinnegando nel momento del bisogno ogni legame con i lavoratori , appare frutto di una invidia sociale fomentata dalla necessità di contrapporre al lavoratore un nemico. Senza un nemico pubblico non esiste necessità di difesa da parte dei lavoratori. Senza difesa vengono meno rendite di posizione che ancora oggi relegano il nostro Paese tra gli ultimi in termini di garanzie reali offerte sul lavoro. Gli imprenditori creano ricchezza che dovrebbe ritornare sul territorio in diverse forme: retribuzioni, investimenti, formazione, etc…  Chi realmente tutela i lavoratori se non chi remunera il loro lavoro? Come si può discutere del lavoro di un uomo nel momento in cui è debole e ammalato?  Senza impresa non c’è futuro.

di Leonardo Lasala

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