Mi hanno chiamata troia.
Fin qui niente che sia degno di nota in quanto la cosa non mi sconvolge particolarmente: non è stata la prima e non sarà certamente l’ultima volta. D’altronde è un termine quantomeno abusato, si viene definite troie per qualunque motivo, ormai. E dopotutto io, un po’ troia, mi ci sento pure.
Donna di facili costumi nel senso più liberatorio del termine, se vogliamo.
L’epiteto troia viene utilizzato un po’ come il prezzemolo per definire tutto e niente ma soprattutto viene usato per descrivere una donna libera che vive la propria sessualità altrettanto liberamente, come meglio crede e senza fini procreativi e quindi sì: datemi della troia quando e come vi pare in tutti i modi, luoghi e laghi.
C’è solo una cosa che mi rattrista: ad attribuirmi questo appellativo è stata una donna.
Una donna mi ha definita tale per via del mio abbigliamento: un top e un paio di jeans, indossati per andare a un concerto.
Nel 2018 una sorella figlia di un’altra madre ha usato un termine spregiativo solo perché le mie tette sporgevano dalla scollatura del mio top.
In che modo possiamo pensare di sovvertire una società che ci vuole rintanate nel focolare se siamo le prime a darci addosso? Le prime a giudicarci senza colpo ferire, senza conoscerci, solo per via del mero aspetto fisico?
Quella donna mi ha fatto molta pena. E molta rabbia, a dirla tutta.
Perché a me non importa d’essere chiamata troia, al massimo posso correggerti chiedendoti di inserirvi davanti l’aggettivo “grandissima”. Ma io sono io, ho preso consapevolezza del mio corpo e ho preso in mano la mia vita: trovo che sia un complimento essere definita donna di malaffare, e tante grazie.
Avrebbe potuto non trovare me però, ma una ragazza più fragile. Una ragazza che ha passato tre ore davanti allo specchio di casa per prepararsi e sentirsi carina, una ragazza piena di insicurezze e fisime, una ragazza come ero io qualche anno fa. Se fosse stata quella ragazza ad essere chiamata troia, con quel tono carico d’astio e disprezzo, avrebbe passato la notte a ripensarci. A rimuginarci su. A chiedersi “ma cosa c’è che non va in me?”. L’avrebbe portata a non scoprirsi più, fuori di casa, a vergognarsi ancora di più del proprio corpo.
Trovo che sia ridicolo doverlo sottolineare, ma sarebbe carino iniziare a pensare prima di parlare.
Sarebbe carino iniziare a provare un po’ di solidarietà femminile.
Sarebbe carino pensare “che bella, com’è fiera del suo corpo, guarda come lo mostra”.
Sarebbe carino ricordarci di non fare agli altri ciò che non vorremmo ci fosse mai fatto.
Sarebbe carino iniziare a metterci nei panni delle altre donne.
Sarebbe carino smettere di essere le prime nemiche di noi stesse.
Sarebbe carino smettere di perpetrare dei comportamenti maschilisti per invidia della libertà altrui.
Sarebbe carino smettere di giudicare le altre donne in base alla loro vita sessuale.
Sarebbe carino ricordarci che un vestito non ci definisce.
Vi chiedo di ricordarlo, la prossima volta che vi viene in mente un giudizio affrettato.
Grazie.
La troia del concerto di Nicky Jam.
Eleonora Pucci