(Fonte foto: La voce di New York)
Leggo ogni giorno le auliche disamine politiche e sociali dei miei colleghi che scrivono su quotidiani e periodici online e cartacei. Queste pregevoli analisi hanno una pecca; non raccontano quello che al cittadino viene nascosto cercando di avvicinarsi il più possibile alla verità. Non rappresentano il mestiere che queste persone si sono scelti: raccontare dei fatti.
Leggo anche notizie di ogni giorno che arrivano da sole al cronista come lettere inviate con prioritaria al mittente: l’incidente, l’incendio , la rissa che uccide alla luce del sole e vedo la capacità di raccontare ma mi sfugge la facoltà del cronista di vedere oltre l’apparenza, di svelare ciò che si vuole nascondere all’opinione pubblica. Percepisco desolante l’assenza di domande che si pone il professionista , specialmente chi tratta di politica abituato ad eleganti e noiose conferenze stampa dove la notizia è preconfezionata e comoda. E questa mancanza di coraggio , di iniziativa di curiosità che si è tradotto in un continuo anelito al privilegio e alla sicurezza ha creato dei pezzi che altro non sono che uno sfoggio inutile di citazioni colte, parole straniere, motti latini una perenna gara, mi si perdoni la volgarità, “a chi ce l’ha più lungo” che non informa, non sveglia le coscienze e annoia il lettore che si allontana inesorabilmente dalla lettura dei quotidiani.
Capisco i disagi dei colleghi che hanno avuto la fortuna di avere una scrivania nella redazione di un grande quotidiano, sono loro nel cuore, massacrati dalla politica italiana onnipresente che ha imposto una linea all’editore e delle direttive al direttore, quest’ultimo impegnato a capire dove soffia il vento favorevole all’arrivo dei lettori quel vento che porti clienti , entrate e nuovi e obbedienti capiredattori piuttosto che tagli e lo stress di quelli rimasti. “Vendere un giornale è come vendere un dentifricio”, mi disse il direttore di un quotidiano della mia città che infatti chiuse due mesi dopo. Redazioni con figure professionali non allineate, senza nessuna empatia, spesso in contrasto. Comprendo la reticenza dei colleghi nel voler esprimere un proprio parere anche là dove sarebbe loro diritto per esempio sulla pagina fb luogo virutale deputato al libero pensiero, imbevuti di quell’omertà che si portano nelle tasche dalla redazione alla scrivania di casa, spacciandola per imparzialità richiesta dalla deontologia professionale e li apprezzo quasi per la loro pacatezza che non incrementa inutili polemiche e i loro buonismo che costa poco, lascia una scia dolciastra nell’aria e fa fare molta figura.
Lo so, la ricerca della merce avariata dietro la vetrina è scomoda, puzzolente, pericolosa è vero e capisco la loro scelta così come la loro indifferenza nei confronti delle richieste di aiuto di coloro che invece hanno scelto di raccontare dei fatti scomodi: appalti truccati, corruzione, infiltrazioni mafiose, ingerenza della politica, violenze su minori ad opera di insospettabili, insomma di scrivere quei pezzi dove le citazioni sarebbero fuori luogo e i latinismi ridicoli. Capisco, sono piena di umana comprensione perché anche io per lungo periodo mi sono messa in condizione di non scoperchiare nessun vaso di Pandora, io mi sono messa in un angolo però non ho mistificato con la pretesa di insegnare con i miei articoli la vita e la cultura. Una umana comprensione che viene meno quando vedo l’accanimento e l’accusa nei confronti di chi il suo lavoro lo fa davvero. Questo davvero mi fa arrabbiare. Io capisco ma voi no. Io sono clemente ma voi girate il coltello nella piaga, date l’ultima coltellata al collega che sta mettendo in gioco la sua vita per informare, quel colpo che fece esclamare all’ormai esanime Giulio Cesare “Tu quoque, Brute, fili mi?”.
Voglio chiudere anche io con una citazione latina per solidarietà con voi. Non vi odio, non vi disprezzo, non sono nessuno per farlo, mi limito a dare il consiglio che do ogni volta a me stessa: più coraggio, meno autocompiacimento letterario, più verità e meno cattiveria.
di Valentina Roselli