(Fonte foto: dal web)
Il seguente articolo è un’inchiesta L’Espresso
Doveva essere l’altra metà del Jobs Act: esperti che aiutano a trovare un impiego, sussidi condizionati all’impegno del disoccupato. Un progetto mai decollato. Colpa del referendum costituzionale bocciato. Dei pochi soldi a disposizione. E della paura (del Pd) di finire come i socialdemocratici tedeschi
«Siamo spiacenti, il numero chiamato è inesistente». Questo si sente rispondere da un paio di settimane chi prova a contattare il centro per l’impiego di Petilia Policastro, diecimila abitanti aggrappati ai monti della Sila, in Calabria. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse tragica. Perché questo vecchio edificio grigio e squadrato, che prima fu convento monacale e poi sede del municipio, è oggi il luogo che dovrebbe aiutare gli abitanti locali a trovare impiego nella provincia (Crotone) con il più alto tasso di disoccupazione d’Italia, dove un lavoro ce l’ha ufficialmente solo un cittadino su tre. Missione impossibile da affrontare senza nemmeno un telefono. Non solo perché qui le imprese principali sono una manciata di segherie. Il problema è che a Petilia Policastro il centro per l’impiego è allo sbando. E nel resto del Paese le cose non vanno tanto meglio.
È una mattinata torrida di metà luglio in questo angolo desolato della provincia italiana. Andrea Ruberto, responsabile della struttura, ci accoglie nell’ufficio mostrando i segni dell’incuria. Intonaci che si staccano. Macchie gialle di umidità. In alcuni angoli sta crescendo addirittura il muschio. «Ora ci hanno tagliato il telefono e siamo costretti a usare i nostri cellulari», si sfoga, «ma la situazione è grave già da parecchio. Lo vede questo computer? Me lo sono dovuto portare da casa, perché quello aziendale si è rotto e nessuno lo sostituisce. Per non parlare delle pulizie: le dobbiamo fare noi, la Provincia non ha più soldi per pagare un’impresa. Altro che politiche attive, qui siamo in totale emergenza».
1 MILIONE DI POSTI DISPONIBILI
Le politiche attive del lavoro per anni sono state la parte mancante del Jobs Act. Una serie di misure attraverso cui il disoccupato può migliorare il proprio curriculum, cercare offerte di impiego e, se tutto va bene, tornare sul mercato. Se con la legge voluta dal governo Renzi perdere il posto è infatti diventato un po’ più facile rispetto al passato, lo Stato deve impegnarsi per aiutare chi resta a casa. Guardando i dati sull’occupazione verrebbe da dire che in teoria è tutto giusto, ma se poi il lavoro non c’è, le politiche attive servono a poco.
Il luogo comune si sgretola davanti ai risultati di una ricerca diFace4Job , portale che incrocia domande e offerte di impiego. A fronte di circa 3 milioni di disoccupati ufficiali, al momento in Italia ci sono 1.007.835 di posti disponibili. E non sono nemmeno tutti, perché lo studio considera solo le proposte pubblicate sui siti aziendali, non per esempio quelle sponsorizzate dalle agenzie interinali. Va detto che buona parte di queste occupazioni arriva dal Nord e dal Centro, mentre al Sud le opportunità scarseggiano. La sostanza però non cambia: il lavoro in Italia ci sarebbe anche, magari non per tutti, ma per guadagnarselo bisogna avere le competenze richieste, oltre che la voglia.
Ecco allora l’utilità delle politiche attive, ufficialmente in vigore da ormai un anno e mezzo sulla falsariga di quanto avviato dodici anni fa in Germania dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, che per dare un taglio ai sussidi a pioggia decise di creare un patto tra lo Stato e il disoccupato. Patto che suona più o meno così: se vuoi l’aiuto economico, caro cittadino, devi venire al centro per l’impiego, seguire i corsi che ti proponiamo, accettare le offerte in linea con le tue caratteristiche. Altrimenti l’assegno te lo puoi scordare. In gergo tecnico si chiama condizionalità.
MODELLO TEDESCO
Anne Jakob, 36 anni, assicura che «è anche grazie a questo se oggi la Germania ha un tasso di occupazione altissimo». La incontriamo a Berlino, a pochi metri dal Checkpoint Charlie, simbolo della divisione della città ai tempi della Guerra Fredda. Riccioli rossi e occhi azzurri, laureata in management dell’amministrazione pubblica, Frau Jakob è una orientatrice del centro per l’impiego di Friedrichshain-Kreuzberg, il distretto più popoloso della capitale tedesca. È insomma una di quelle persone – in Germania sono 25mila, guadagnano tra i 1.700 e i 2.200 euro netti al mese e devono avere almeno una laurea triennale; in Italia non esistono dati ufficiali ma sono molti meno e lo stipendio va da 1.200 a 1.500 euro – che si dedica a rimettere in carreggiata i disoccupati.
«I nostri iscritti sono 38 mila: noi siamo 700 impiegati, tra cui 250 orientatori», spiega Jakob. A Petilia Policastro, tanto per fare un esempio, gli utenti sono 25 mila. La differenza è che i dipendenti sono solo sei e fra questi non c’è nemmeno un orientatore. Risultato? Il patto di servizio, quello che prevede la condizionalità, oggi lo firmano anche i disoccupati italiani. Il problema è che poi da noi quasi nessuno lo fa rispettare.
Per capire perché bisogna scendere dalla Sila e puntare verso il Mar Tirreno. Vibo Valentia è il capoluogo di un’altra provincia italiana con tassi di disoccupazione da record. Quando arriviamo al centro per l’impiego, la sala d’attesa è piena. Sono quasi tutti precari della scuola. Lavorano da settembre a giugno, poi campano con il sussidio fino all’inizio del nuovo anno.
DIPENDENTI SENZA STIPENDIO DA 4 MESI
«Ieri ero qui, a un certo punto Internet si è bloccato e ci hanno chiesto di tornare oggi», dice con un sorriso desolato Giuseppe Fiumara, 40 anni, che da oltre un decennio fa il maestro d’italiano precario nelle elementari del Nord. «Nelle private non voglio andare e altri lavori non mi interessano: io voglio insegnare nelle scuole pubbliche», scandisce, «e spero prima o poi di essere stabilizzato». Non si capisce allora perché Giuseppe – come le altre migliaia di precari della scuola o del turismo – debba passare intere giornate al centro dell’impiego per firmare il patto di servizio. Perché con questo documento l’utente promette di attivarsi per trovare un lavoro. Ma se tutti sanno già che tra qualche mese tornerà in cattedra, perché intasare gli uffici per firmare accordi che nessuno farà rispettare?
Uno sforzo dannoso, oltreché inutile. Tanto più in un luogo come Vibo, dove per mancanza di soldi la situazione è imbarazzante. Linee telefoniche tagliate, collegamento internet a singhiozzo, computer antidiluviani. E dipendenti che non ricevono lo stipendio da quattro mesi. «Siamo qui ad aiutare i disoccupati e ci lasciano senza paga: è una vergogna, io ho tre figli e il mio è l’unico reddito della famiglia», sbotta Giovanna Marasco, addetta all’accoglienza utenti.
Quello di Vibo Valentia è un caso limite. Una situazione causata dallo stato di dissesto finanziario della Provincia, governata per anni dal centro sinistra. Il punto è però un altro, e coinvolge tutto il sistema delle politiche attive. Chi le decide? Chi controlla il rispetto delle regole? La riforma costituzionale voluta da Renzi prevedeva, oltre all’abolizione definitiva delle Province, l’esclusione delle Regioni da queste decisioni, con la conseguenza che la materia sarebbe diventata di competenza esclusiva dello Stato. Anche per questo è stata creata l’Anpal , l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Visto che però la riforma è stata bocciata con il referendum, oggi le politiche attive sono in balia del caos. Le decisioni sono di competenza congiunta di Stato e Regioni, e i centri per l’impiego sono formalmente ancora sotto il controllo delle Province, di fatto però svuotate di competenze e quattrini.
«In pratica», riassume Romano Benini, direttore del Master universitario in politiche del lavoro alla Link University di Roma, «i dipendenti dei centri per l’impiego non sanno chi li comanda, ogni Regione fa come le pare e nessuna istituzione investe sugli orientatori, figure essenziali per lo sviluppo delle politiche attive». Lo dimostra quanto sta succedendo a Roma. «Qui da noi», racconta sotto anonimato un orientatore della capitale, «la sproporzione fra dipendenti e utenti è talmente grande che non facciamo rispettare la legge. Tutti quelli che percepiscono una forma di sostegno al reddito dovrebbero essere contattati da noi per dei colloqui, oltre che per eventuali corsi formativi, e nel caso non si presentino dovremmo segnalarli all’Inps per fargli tagliare il sussidio. Ma questo non avviene quasi mai perché siamo sommersi dal lavoro burocratico, e io sinceramente sto iniziando a guardarmi in giro per cambiare posto».
QUESTIONE DI SOLDI
I numeri parlano ancora più chiaro. Germania e Italia investono più o meno le stesse cifre per pagare sussidi ai disoccupati (politiche passive) e incentivi per le nuove assunzioni (politiche attive). La differenza sta nella spesa per i cosiddetti “servizi per il lavoro”, cioè il denaro usato per pagare gli orientatori. Qui i tedeschi investono quasi quindici volte più degli italiani. E i risultati danno ragione a Berlino.
Per fortuna non tutta l’Italia è messa male. Alla periferia est di Milano, zona Giambellino, c’è la sede centrale di uno dei centri per l’impiego più virtuosi. Si chiama Afol Metropolitana e vanta numeri da record: il 23 per cento degli utenti riesce a trovare un nuovo impiego, mentre la media nazionale è ferma all’1,5 per cento. Al primo piano troviamo una decina di operatori impegnati a far firmare patti di servizio. Al secondo piano c’è l’incarnazione di ciò che dovrebbero essere le politiche attive.
Pina e Ilir, entrambi classe ’54, stanno dialogando seduti a una scrivania. Lei è un’orientatrice, lui un ingegnere italo-albanese rimasto senza lavoro. Progettava macchine per l’imballaggio di prodotti alimentari. Due anni e mezzo fa la sua azienda ha chiuso e a lui non è rimasto che il sussidio. Grazie all’aiuto del centro per l’impiego milanese, però, Ilir non ha perso le speranze.
L’Afol gli ha offerto due corsi d’inglese e diversi colloqui individuali. Incontri in cui Ilir è stato aiutato a riscrivere il curriculum, a preparare una lettera motivazionale, a valorizzare le sue esperienze da progettista ma anche quelle da mediatore culturale. «Questo signore ha fatto per anni volontariato aiutando gli stranieri appena arrivati in Italia, e ha sviluppato così capacità che in questo momento sono richieste dal mercato. Ecco, io l’ho aiutato a capire meglio le sue potenzialità, gli ho dato qualche consiglio pratico, poi il resto ovviamente spetterà a lui», dice la dipendente pubblica.
Se a Milano le cose funzionano meglio che in Calabria (e in tante altre zone d’Italia), il merito non è soltanto dei milanesi. Giuseppe Zingale, calabrese trasferitosi al Nord e diventato direttore generale di Afol Metropolitana, spiega che la particolarità di questo centro è la sua natura ibrida: «Pur essendo una struttura pubblica, ci collochiamo in un regime concorrenziale con gli operatori privati, e la partecipazione ai bandi regionali, nazionali ed europei ci consente di reperire risorse utili ad ampliare l’offerta di servizi per i cittadini in difficoltà occupazionale». Conseguenze: a Milano ci sono più orientatori rispetto al resto d’Italia e la condizionalità si applica davvero.
Se quella di Zingale e colleghi punta a diventare la normalità, qualcuno dovrà intervenire al più presto. Il fallimento della riforma costituzionale ha però mantenuto invariato il potere degli enti locali, evitando la creazione di un’unica regia sulle politiche del lavoro. Giuliano Poletti, ministro competente in materia, finora non è riuscito a mettersi d’accordo con le Regioni, che combattono contro il governo centrale per gestire autonomamente i soldi destinati alle politiche attive. Un contrasto che finora ha impedito l’assunzione di 1.000 nuovi dipendenti dei centri per l’impiego, decisione annunciata per la prima volta quasi cinque mesi fa e non ancora realizzata.
GENTILONI PRONTO AL COLPO DI MANO
Secondo una fonte che sta seguendo da vicino la vicenda, il premier Paolo Gentiloni potrebbe decidere di farsi carico direttamente del problema, proponendo alle Regioni un compromesso del genere: a voi la gestione finanziaria, a noi quella sulle politiche attive. Uno scambio finalizzato a sbloccare la paralisi, ma che potrebbe portare qualche governatore a impugnare la decisione davanti alla Corte Costituzionale.
Di certo per tradurre in pratica una riforma che finora è rimasta solo sulla carta serve soprattutto una cosa: i soldi. Quelli necessari per assumere orientatori, a partire dai 2.500 precari che si trovano in una situazione paradossale.«Dobbiamo aiutare le persone a trovare un lavoro, ma abbiamo paura che l’anno prossimo il lavoro non ce l’avremo nemmeno noi», spiega Alessandra Neri, precaria del centro per l’impiego di Reggio Calabria.
È però solo grazie a queste persone, e all’applicazione della condizionalità, che le politiche attive possono trasformarsi in qualcosa di utile per ridurre il problema della disoccupazione. Lo dimostra il caso della Germania. Un successo che nasconde una trappola politica. Da quando hanno varato le riforme, i socialdemocratici tedeschi non hanno più governato. Che sia questo il vero freno a una svolta sulle politiche del lavoro in Italia?